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COMUNICAZIONE CORRETTA?

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Se è vero che ogni cosa che facciamo o non facciamo, che scriviamo o non scriviamo, che diciamo o non diciamo (insomma il tutto e il contrario di tutto…) ha valore comunicativo, è ugualmente vero che assume un preciso significato (udite, udite, addirittura diverso dall’intenzione di chi lo emette) nel momento in cui chi lo osserva, lo ascolta, o lo legge, ne interpreta (a modo suo) il contenuto. È normale!


Ognuno ha il suo modo di vedere le cose e questo è un diritto che va concesso a tutti.
Per dirla alla Voltaire, si potrebbe semplificare così: “non condivido le cose che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirle”.
Partendo dal presupposto, quindi, che un messaggio assume un significato solo grazie a chi lo riceve, ciò dimostra che non c’è un unico modo di comunicare e neppure che il significato corrispondente sia precisamente quello espresso da chi lo emette.
Pazienza!

Allora, Giannicola, “dove va a sbattere ‘sta parola“?

Immagino mi chieda mia nonna Ida (che non ho mai conosciuto… ma di cui a casa abbondano aneddoti).
COMUNICAZIONE CORRETTA?

(sì, con un goccio di Sambuca, grazie!)
Si scherza!
Mi piace scherzare e mi piace farlo con le cose che mi appartengono (soprattutto con me stesso) e allora ho immaginato l’equivoco del titolo. In effetti anche in quelle poche parole, che sono appunto il titolo di oggi, c’è un malinteso tra chi pronuncia idealmente la frase: “COMUNICAZIONE CORRETTA?” e chi gli risponde “sì, con un goccio di Sambuca, grazie! “
Nella comunicazione, non è importante quello che si dice ma quello che viene capito!
Ora mi dispiace deludere i tuoi “deliri” di comunicatore efficace, e se pensavi che bastasse avere un buon livello culturale ed essere molto informati sull’argomento ti informo che le cose non stanno proprio così.
Dal momento che tutti comunichiamo (ne deriva che chiunque di noi sia un comunicatore), essere un comunicatore, ed in particolare un comunicatore efficace, significa prendersi la responsabilità della propria comunicazione.Anni fa comprai un libro che si rivela molto interessante riguardo al contesto odierno e allora voglio condividere con te la seguente storiella, tratta da “101 storie zen” (Adelphi), e forse ci capiamo meglio di quanto posso dirti io (…o di quanto puoi capire tu? Dopo la premessa fatta, concedimi il beneficio del dubbio).
Qualunque monaco girovago può fermarsi in un tempio zen, a patto che sostenga coi monaci del posto una discussione sul Buddismo e ne risulti vittorioso. Se invece perde, deve andarsene via. In un tempio nelle regioni settentrionali del Giappone vivevano due fratelli monaci. Il più anziano era istruito, ma il più giovane era sciocco ed aveva un occhio solo. Arrivò un monaco girovago e chiese alloggio, invitandoli secondo la norma ad un dibattito sulla sublime dottrina. Il fratello più anziano, che quel giorno era affaticato dal molto studio, disse al più giovane di sostituirlo. “Vai tu e chiedigli il dialogo muto”. Lo ammonì. Così il monaco giovane ed il forestiero andarono a sedersi nel tempio. Poco dopo il viaggiatore venne a cercare il fratello più anziano e gli disse: “Il tuo giovane fratello è un tipo straordinario. Mi ha battuto”. “Riferiscimi il vostro dialogo” disse il più anziano. “Beh”, spiegò il viaggiatore, “per prima cosa io ho alzato un dito, che rappresentava Buddha l’Illuminato. E lui ha alzato due dita, per dire Buddha, l’Illuminato e la sua dottrina. Io ho alzato tre dita per rappresentare Buddha, il suo insegnamento ed i suoi seguaci, che vivono la vita in armonia. Allora lui mi ha scosso il pugno chiuso davanti alla faccia, per mostrarmi che tutti e tre derivano da un’unica realizzazione. Sicché ha vinto ed io non ho nessun diritto di restare” e detto questo, il monaco girovago lasciò il tempio. “Dov’è quel tale?” Domandò il più giovane correndo dal fratello più anziano. “Ho saputo che hai vinto il dibattito”. “Io non ho vinto un bel niente. Voglio picchiare quell’individuo.” “Raccontami la vostra discussione” lo pregò il più anziano. “Accidenti, non appena mi sono seduto lui ha alzato un dito, per schernirmi con l’allusione che ho un occhio solo; allora, visto che è un forestiero, ho pensato di dover essere gentile, così ho alzato due dita, congratulandomi del fatto che lui ne avesse due. Poi quel miserabile villano ha alzato tre dita per dire che insieme non avevamo che tre occhi. Allora ho perso la tramontana e sono balzato in piedi per dargli un pugno, ma lui è scappato via e così è finita“.
Capito come due persone diverse hanno due modi differenti di interpretare gli stessi gesti?
Ti ritrovi in qualche situazione che ti è accaduta recentemente?

Abbi gioia

Giannicola
Giannicola De Antoniis:
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