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Boniciolli e l’anno zero del nostro basket: “Ci resta solo l’innovazione”

Solo ieri buttavo giú poche righe sulla possibilitá di appropriarsi e/o sviluppare abilitá importanti come l´innovazione e la creativitá, e oggi che trovo? Questo articolo interessante sul sito della lega basket (preso dall´Unitá – di Salvatore Maria Righi) su coach Boniciolli che parla di argomenti interessanti; dove si viene premiati se coinvolti, se appassionati, se organizzati, se pazienti, se si hanno idee chiare e se si agisce con precisione e determinazione.
Parole sante… nella speranza che arrivino i fedeli!!!
Grazie per l´esempio di scelta personale (guidata da altissimi valori) che ha dato al basket e alla “societá civile”.
Ci vuole coraggio, ci vuole creativitá, ci vuole innovazione.
In bocca al lupo coach!

Ognuno come puó.
Abbia gioia

Giannicola

Boniciolli e l’anno zero del nostro basket:
Ci resta solo l’innovazione”
Chi sogna di giorno vede molto più lontano: tra Matteo Boniciolli ed Edgar Allan Poe c’è piena sintonia. Il problema casomai sono gli altri, quelli del basket, che lo considerano un pazzo che abbaia alla luna e che ogni tanto si toglie qualche soddisfazione. Per non parlare di quelli che «la pallacanestro è roba per spilungoni», e che sicuramente faticano a capire perché il miglior allenatore del 2008, il mago della rivelazione Avellino, ora sia al timone del progetto Trieste, cioè casa sua. Perché ci si può anche specializzare in miracoli e restauri, ma passare dalla semifinale scudetto alla quarta serie è un bello schiaffo alla bulimia dello sport (e del mondo) contemporaneo. La sua ennesima scelta alla Bartleby lo scrivano, preferirei di no, e le macerie della nazionale italiana che ormai non c’è più, proprio ora che nel campionato sono tornati soldoni e grandi firme: carne al fuoco ce n’è tanta insomma, per l’unico «compagno» (nel senso politico) che ha fatto outing nel mondo dei cesti. E pazienza se la sua parabola ricorda un po’ quella di Zare Markowsky, suo successore proprio ad Avellino, dalla finale scudetto con la Virtus Bologna al licenziamento: il deragliamento dalla logica è senz’altro uno dei padri dello sprofondo baskettaro. «Calma, io non ho rinunciato a nulla. Semplicemente ho scelto di tornare dalla mia famiglia, perché non volevo più stare lontano dai miei figli. Me ne sono andato da Avellino, non senza rammarico, e soprattutto senza offerte sul tavolo. Dico solo che altri, più paraculi di me, non l’avrebbero fatto. E dall’Italia non mi ha chiamato nessuno. Mi hanno telefonato da Mosca e da Istanbul, ma non sarebbe stato coerente andarci. Ma ma resto sul mercato e aspetto una panchina». Quindi fine della favola Avellino: gli ultimi tornano ad essere beati? «Assolutamente no, il presidente Ercolino e la società hanno investito molto e si sono rafforzati ancora di più, durerà ancora tanto. Il problema è un altro casomai». Quale? «L’anno scorso i nostri risultati, come quelli di Montegranaro e Capo d’Orlando, cioè le piccole piazze, sono stati possibili anche per la crisi dei club come Milano, Roma e Bologna. Ma soprattutto perché, per la prima volta, è stato premiato più chi ha avuto idee di chi ha speso soldi. “Avellino ha vinto per l’innovazione” ha detto di noi Dan Peterson, il complimento più bello». Dopo la rivoluzione francese, torna la restaurazione. Le grandi hanno speso tanto, e Siena è sempre Siena. «Quest’anno sono in ballo le tre licenze per le prossime edizioni dell’Eurolega, non potevano permettersi di sbagliare. Ma questo conferma quello che ho detto. Ad Avellino sono state premiate le scelte come quella di prendere giocatori che altrove non volevano più, o di giocare con un play nano, ma con quattro di due metri e passa intorno. Oppure di fare l’allenatore e il gm insieme, con Tonino Zorzi al mio fianco». Quindi qualche consiglio per salvare la nazionale che non era mai caduta così in basso ce l’avrà, no? «Cito il libro di Elsa Morante, “Il mondo salvato dai ragazzini”. Bisogna investire sui giovani e avere il coraggio di buttarli nella mischia subito, come abbiamo scelto di fare qui a Trieste. Abbiamo un paio di ragazzi che in tre-quattro anni potrebbero essere di aiuto all’Italia». Campa cavallo, coach. Forse hanno ragione a dire che non abbiamo più giocatori. «Non è che una volta ci fossero sette Meneghin e otto Flaborea, il problema è casomai che se accetti la competizione e il professionismo, devi comportarti con coerenza. Durante l’estate, per esempio, non è che vedo i campi affollati di giocatori che si allenano per migliorare. Le regole non sono in discussione, casomai è l’interpretazione. Se abbiamo accettato il mercato, poi non si può pretendere il posto fisso. In altre parole, la discriminante non è il passaporto, ma la bravura. Diciamo la verità: tanti nostri ventenni non giocano perché non meritano». Ma come, proprio ora che abbiamo una generazione Nba con Bargnani, Belinelli e Gallinari… «È un paradosso solo apparente, perché la Nba corrompe e perfino gli americani, pur preda talvolta della loro drammatica stupidità, hanno capito che ormai l’Europa è un bacino dal quale non possono prescindere. I ventenni italiani sono difficili da capire, lo dicono anche i sociologi. Ma sinceramente sentirmi dire da loro, parlo dei primi due perché Gallo è stato fermato da un infortunio, che non vanno in nazionale, mi pare perlomeno discutibile. Come il fatto che, invece di essere protagonisti di una rinascita sportiva per il proprio paese, preferiscano passare l’estate a fare pesi in una palestra americana». Fatto sta che la Spagna, anche nel basket, adesso ci sembra la luna. «La differenza tra noi e loro è che in quel paese esiste ancora la possibilità di fare investimenti con una prospettiva e la pazienza di aspettare, senza paura di fidarsi dei giovani. In Italia, e non solo nello sport, perdere è diventato impossibile. E in queste condizioni è difficile trovare gente disposta a tirare fuori quattrini e far andare la giostra. E poi loro litigano meno». Cioè? «È una società molto meno antagonista, da noi manca cooperazione e unità dappertutto, anche nel nostro piccolo ambiente del basket». Veramente pare che il dialogo scarseggi a ben altri livelli. «Ecco, appunto». Salvatore Maria Righi

Giannicola De Antoniis:
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